Farsi compagnia

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Cinque anni nella tua vita si riassumevano in due scatoloni. Erano i miei vestiti. Uno era pieno di lingerie, l’altro di magliette e abiti leggeri. Non che non avessi riempito la tua casa di suppellettili e pupazzetti, statuine, lego. Ma quelli non li rivolevo e tu comunque non me lo hai chiesto. E non mi hai ridato nemmeno l’album dei miei ritratti porno che tenevi nel cassetto del comodino. E le nostre foto che poi mi hai detto che hai tenuto appese ancora per un sacco di tempo. “A me non dà fastidio vederle, anzi, mi tengono compagnia”. Compagnia? Già. Quello che tu presupponevi dovesse essere l’amore.
Ti avevo chiesto se ti tenesse compagnia la foto di te con la schiuma da barba in faccia e io che spunto da dietro in bagno e faccio le boccacce? Quella di noi che ridiamo vestiti abbinati in rosso e nero al matrimonio di Chiara e Albi? Tenersi compagnia. Me lo avevi detto una volta, a ben pensarci. Mi avevi detto: “quello che io penso è che si dovrebbe trovare una persona con cui si vuole invecchiare per farsi compagnia”. E io questa cosa non l’avrei accettata nemmeno a 99 anni, all’ospizio. Ne ero certa. E in effetti noi non ce ne facevamo molta, di questa compagnia. Io ero geograficamente distante, tu eri, per tua natura, distratto.

A volte però funzionavamo. A volte ci accartocciavamo sul divano, abbracciati, guardavamo quei film horror orrendi, io li odio i film horror. Li amavo solo con te perché erano una scusa per restarti abbracciata e sentirmi sicura. Ecco. Io forse per tanto tempo ho pensato che l’amore fosse sentirsi sicuri. Stare dove stai perché non hai paura. Ma poi non mi era piaciuta più neanche quella definizione. Anzi. Quando mi ero innamorata di nuovo, e forse molto di più, avevo pensato proprio che l’amore fosse sentirsi insicuri, completamente. Costantemente sull’orlo di un precipizio. Perché quello ti tiene vivo. Non farsi compagnia. La compagnia te la fa una compagna, a casa, nel letto coniugale.
Sul nostro letto io ti avevo fatto montare un baldacchino.
Compagna era una parola che mi era sempre piaciuta solo in senso politico. In amore mi pareva qualcosa di tiepido, moderato, triste.
Le mie fissazioni da poeta.
E allora, noi, come eravamo diventati due che avrebbero potuto farsi compagnia? Forse come sempre io non avevo capito i segnali. Non ero stata in grado di guardarti e accorgermi che te ne stavi andando. E così un mattino al telefono mi hai detto: “semplicemente io non ti amo più e tutto quello che ho sopportato di te non ha più senso sopportarlo dato che non ti amo” e il giorno dopo sarebbe stato il nostro anniversario. Un anniversario importante. Che poi…per me lo sono tutti, ma mi piaceva quell’anniversario. Cinque anni con te erano un po’ la garanzia del fatto che potevo farcela anche io: la scellerata, la puttana, la folle, la nevrotica, la stronza. Anch’io, per una volta, potevo fare una cosa normale.
E invece no. Niente da fare neanche questa volta.
“Non ti amo più. E non c’è più un motivo per cui io sopporti quello che sopporto da 5 anni”. La frase esatta non me la ricordo. Ci ho pensato tante volte. Ma in quel momento guardavo il muro. Boccheggiavo come un pesce. E non c’era una parola che io riuscissi a pronunciare. Ed è una cosa stranissima per me. E tu lo sai bene, visto che a volte mi dicevi: “tu parli troppo. Perché usi così tante parole per dire cose che potrebbero essere semplici?”. E io pensavo che questa cosa fosse veramente stupida. Pensavo: ma come è possibile che io stia con un uomo che non apprezza la cosa che io so fare meglio? Parlare, esagerare, dire – e fare- troppo più del necessario.
Poi, un giorno di ottobre, sarebbe arrivato l’uomo capace di ascoltarmi per ore che passavano velocissime, l’uomo che si eccitava per il solo il suono della mia voce, anche se poi, anche quella storia, malamente, orrendamente, sarebbe finita e senza lasciare nemmeno due scatoloni. Finendo, però, anch’essa, incredibile, il giorno prima del nostro anniversario, lasciandomi da sola, a riflettere sul perché le persone mi amano e poi, improvvisamente, sembra non mi amino più. E se ne accorgono un mattino. Si svegliano. E non mi amano più.
Ma questo sarebbe successo dopo, questo mi avrebbe ucciso dopo.
Ora c’erano i due scatoloni. Uno pieno di lingerie. L’altro di magliette e abiti leggeri. Nella tua macchina che io amavo. Pensavo all’altra volta in cui avevamo tentato di lasciarci. Il mese prima. Eri nello stesso posto. Con gli stessi scatoloni. No. Era uno solo. Chissà quale dei due. Mi avevi detto: “ho cominciato a portarti solo alcune cose”. Poi avevamo parlato. Tre, quattro ore. Camminato. C’eravamo stretti forte. E prima di andare via ci eravamo baciati, come sempre, io sulle punte dei piedi e tu a stringermi, a tenermi “perché ti metti sempre sulle punte? Ti fai male!” “Ma io voglio abbracciarti il collo”. E tu eri enorme, fortissimo. Uno che in un abbraccio ti tiene al sicuro per sempre.
Sei così ancora, credo. Non ti vedo da tanto tempo. Ogni tanto spio una tua foto. Ora hai un’altra donna, non brutta, ma meno bella di me, scegliete sempre donne meno belle di me alla fine, che mi hai detto: “mi ha fatto capire che tu avresti avuto bisogno di qualche sberla ogni tanto”. E io ho riso quando ti ho ascoltato. Ho riso molto forte. E, lo sai? Forse, dovreste darmele qualche volta queste sberle, forse evitereste di ingoiare in silenzio per anni e dirmi il giorno prima del nostro anniversario che non mi amate più.
Che poi, a dire il vero, l’altro, quello che è venuto dopo, l’amore della mia vita, le sberle me le dava. E gliele davo pure io. E non era servito lo stesso. Quindi forse anche una relazione basata sulle sberle non era una garanzia.
Tu, invece, uno schiaffo non me lo potevi dare. Non lo avresti mai fatto. Per tua natura e perché mi avresti ribaltata con poco più di una carezza. Era una delle tante cose che amavo di te. A volte sovrapponevamo le nostre mani, la tua era grande il doppio. Le tue mani, un altro dei miei porti.
Però mi faceva ridere che avessi capito dopo tanto tempo che avresti dovuto darmi quella sberla. So che stavi scherzando. Ma stavi anche dicendo una cosa serissima.
La prima volta avevo guardato quello scatolone. E mi ero presa quel bacio. E ci eravamo salutati e ci eravamo detti: “lasciamo passare la Pasqua. E poi qualcosa di noi faremo. Ma lasciamo passare la Pasqua”, chissà, perché. Forse attendevamo una resurrezione?
Mi avevi detto anche: mi mancherà Pasqua a casa tua. La tua famiglia è l’unica che io abbia mai avuto. Mi commuove pensare a quella frase, quanto mi commuove la dolcezza di mia madre nell’amare tutti i miei uomini sbagliati, perfino l’ultimo, “vado al mercato a comprare le alici se mercoledì viene a pranzo”, nonostante avesse asciugato mesi di mie lacrime per lo stesso stronzo. Nonostante venisse a giocare a fare il fidanzato con moglie e figli a casa, e questo per mia madre fosse una tristezza atroce. Ma a casa mia si ama e si cucina, senza giudicare mai, qualunque cosa accada.
Strana la vita. Stupida. Che hai le mani piene di sole e poi arriva il diluvio. E raramente sai quando è stata l’ultima volta di qualcosa. Invece io con te lo so. So quando è stata l’ultima volta che abbiamo fatto l’amore, a Capodanno. A Capodanno. E mai più. E so quando è stata l’ultima volta che ci siamo baciati. Poco prima di Pasqua. E io sono andata via e ridevo, in macchina. Perché mi sembrava così bello, così giusto, così tutto a posto. E di essere stata anche brava perché ce l’avevo fatta, perché avevo ricostruito, avevo messo l’oro nelle crepe (che cosa stupida. A lasciare andare bisogna imparare, a risorgere. Non ad aggiustare, ho imparato dopo…che le cose rotte sanguinano dalle crepe per sempre). Dopo Pasqua ci eravamo chiamati e tu mi avevi detto così, al telefono: “non ti amo più. Ed è il motivo per cui non ti posso più sopportare. Non ti amo più quindi quello che ho sopportato per cinque anni adesso non lo voglio più”. O qualcosa del genere. E io ero rimasta muta. Per un po’ di tempo ho pensato che avrei mandato mia sorella o qualche amica a prendere gli scatoloni a casa tua. E poi…e poi ho deciso che dovevo rivederti ancora una volta. Abbiamo mangiato del riso, io ti ho restituito le chiavi di casa con attaccate le manette, le tenevo in un astuccio dove avevo anche un’altra chiave che chiamavo “la chiave del mio cuore” e che da tanto tempo pensavo che un giorno ti avrei consegnato. Ma non ce l’ho mai fatta. Le manette sì, però. Quelle piccole manette te le ho ridate. Insieme alle chiavi della nostra casa. Dove c’erano le foto appese. E i pupazzetti. E quella piccola statuina che raffigurava il pagliaccio Hit. Gli alabastri di Volterra. I nostri vini, quello del nostro matrimonio, te lo ricordi? Eravamo andati in quella cantina e quanto eravamo stati felici? Bevevamo, ridevamo, ci guardavamo negli occhi. I tuoi occhi azzurro-incredibile. E poi abbiamo detto: compriamo un Barolo costosissimo. E io avevo detto: quando ci sposeremo lo berremo io e te la prima notte di nozze. Chissà se ce l’hai ancora. Se lo hai conservato nel modo giusto. Se lo hai bevuto con lei. Con quella che adesso ti fa compagnia. O se magari è così triste che è pure astemia. La persona di cui hai detto: “mi rende tutto facile. Vive qui, vicina. Non mi ha mai chiesto di rinunciare al rugby in tv la domenica”. “La ami?”, ti ho chiesto. Perché per me è sempre così importante mettere i punti sulle i. “Non la amo”, mi hai detto, “Ovvio che non la amo”. “E a me, mi amavi?”. “Lo sai che ti ho sempre amata, e…” “E…?” “Niente, lascia stare”. Ecco allora poi io ho pensato che frasi così valessero tutto il resto della rabbia. Perché tu non valevi davvero niente se ti tenevi accanto una che non amavi ma ti faceva vedere il rugby.
E allora poi, sai, ho pensato anche: forse è così. Forse smettono di amarmi perché non gli faccio guardare il rugby. Forse smettono di amarmi perché io pretendo sempre di correre, di urlare, di ridere…di stare vivi. E si divertono un sacco con me. Ma poi a casa, sul divano, vogliono quella che li fa stare tranquilli. “Torno da lei perché è semplice e lineare”, mi aveva detto l’amore della mia vita, anni dopo. E allora se sei molto onesto, come sei tu, dici: “non la amo. Ma mi fa compagnia”, se sei uno che ama le menzogne, come mi è capitato dopo, dirai “non amo più te. Perché amo la mia compagna di un rinnovato amore. Dopo averla tradita tutta la vita. Dopo aver perso completamente la testa per te. Dopo le montagne russe su cui mi hai tenuto per questo anno di pura felicità. Io ora mi accorgo che non ti avrei saputa tenere davvero al mio fianco. Che non so correre veloce come te. Che non so essere felice. E che lei è una donna semplice, non mi spaventa con la sua libertà, non mi spaventa con la sua fame di felicità”.
Perché poi, forse, molto si riduce a questo.
Per te, per lui.
Per tutto il vostro genere maledetto.
Avete paura delle donne che corrono.
Tanti anni fa, tanti prima degli scatoloni, mi avevi scritto un bigliettino che diceva: “io non fermerò mai la leonessa”. Ma tu forse la leonessa l’avevi tollerata, mai capita, e quando l’amore ti era sembrato finito non sapevi più che fartene di questa femmina così ingombrante.
Cinque anni nella tua vita si riassumevano in due scatoloni. Erano i miei vestiti. Uno era pieno di lingerie, l’altro di magliette e abiti leggeri. Con quegli scatoloni, tutti e due, in macchina, come sempre, correvo, per mettere un mondo di asfalto di distanza fra me e te, fra i tuoi silenzi e le mie urla, il tuo running mattutino e le mie colazioni luculliane, la tua musica indie e i miei film in bianco e nero. Ho preso una delle mie innumerevoli multe quel giorno. Nemmeno i velox fermavano la leonessa. Ricordo di aver pianto tutto il viaggio pensando che nel decoder della tua TV c’erano ore di programmi registrati che non avremmo più visto. Forse in quel momento ho capito che tutto il dolore per l’amore che finisce ha a che fare con il futuro. Con il sogno di futuro che, all’improvviso, non esiste più. E noi non piangiamo l’altra persona. Piangiamo i noi stessi che non saremo, quelli che ci rassicuravano per il domani. Perché condividere la vita con qualcuno vuol dire abituarsi ad averne solo più metà. E se resti solo poi te la ritrovi tutta in mano, la tua vita, e l’ebbrezza rischia di ucciderti. La lotta con quella metà di te che torna dopo un coma di ventanni sul divano può essere letale. Ma è quello che dovresti augurarti, perché per risorgere si deve prima morire, no?
E io credo di essere portata più per la resurrezione, amori miei, che per la compagnia.