Autunno. Costa orientale dell’isola di Honshu. Sono nuovamente in Giappone insieme a mia madre e stiamo per fare un’esperienza unica: pranzare in un ristorante dove dicono che il sashimi sia tra i migliori della nazione. Per farvi capire la qualità, persino l’imperatore ha mangiato qui.
Dall’esterno è una vecchia palafitta sul mare, ma non giudico mai un libro dalla copertina e penso che dentro sarà più bello. Invece no. Entrando ho l’impressione di essere finita a casa di una vecchia zia di campagna. Centrini ovunque, parquet molto vissuto, tappetini sintetici, tendine in pizzo e tavolacci in legno rustico. Tutto però estremamente pulito.
Mentre sto per accomodarmi vengo fermata dal cameriere che mi chiede gentilmente di seguirlo. Non capisco ma ubbidisco e mi ritrovo sotto alla palafitta, davanti a una vasca enorme piena di pesci che nuotano felici in mare.
“Scelga quello che vuole mangiare” mi dice il cameriere.
Guardo mia madre e le chiedo di scegliere lei per me. Io non riesco. Un conto è mangiare un animale e un altro è scegliere la tua vittima. Lo so, sono un’ipocrita moderna occidentale del cavolo.
Dopo un po’ di attesa finalmente il cameriere arriva con il mio pranzo. Non fa in tempo ad appoggiare il piatto sul tavolo che caccio un urlo di terrore ed esclamo “ma è vivo”!
I pesci, tagliati a sashimi ma con ancora testa e coda, respirano e si contorcono nel piatto. L’astice muove le sue antenne a destra e sinistra battendo la coda contro il bordo in un disperato S.O.S. in codice Morse e il calamaro mi guarda, con i suoi occhi grandi, agitando i tentacoli in un impossibile tentativo di evasione.
Impietosita penso subito di fargli una respirazione bocca a bocca o di ributtarli nella vasca da cui sono arrivati così da provare a salvarli. Poi mi rendo conto che sono spacciati e che la vera pietà sarebbe quella di colpirli alla testa con il bicchiere, in modo rapido e indolore per terminare la loro agonia. Siccome nessuna di queste cose è davvero un’opzione praticabile, chiedo al cameriere di far sparire questa tragica scena dalla mia vista. E qui grande indignazione collettiva. La sala si zittisce, gli occhi di tutti, pure quelli dei pesci, sono puntati addosso a questa ipocrita occidentale moderna del cavolo che osa contraddire una tradizione del Sol Levante.
“L’ikuzukuri è un’arte antica, praticata da pochi chef al mondo che sapientemente tagliano il pesce e riescono a servirlo ancora vivo. È grande maleducazione rimandarlo indietro” mi spiega mia madre.
Maleducazione o meno io sono sotto shock. Non ce la faccio. Mi è passata la fame e penso di essere finita in un film horror dove tutti, tranne me, trovano che tale pratica senza cuore sia cosa buona e giusta. Chiedo pubblicamente scusa. D’altronde sono per metà straniera e ignoro certe raffinatezze nipponiche. Solo allora in sala torna il garbato brusio di prima e il mio piatto sparisce in cucina per poi ripresentarsi senza teste, code, antenne e branchie che si muovono.