Tutti i miei furti

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Ci sono un po’ di furti nella mia vita. Subìti e fatti. Alzi la mano chi, almeno una volta nella vita, non ha rubato una cosetta. Per il gusto della trasgressione, per la scossa di adrenalina. Nessuno?  Bugiardi… Beh, io sì. La prima volta è stato un furto inconsapevole. Avevo 13 anni, mai una lira in tasca e frequentavo una Scuola piena di ricchi. Ragazze che a 15 anni ostentavano visoni e fidanzato con la spider. Io che venivo da anni di cappotti rivoltati e da zero mancette, mi davo  da fare come potevo. Non rubando, ovvio! Davo lezione, andavo al Festival dei Teatri Stabili a riavvolgere i fili delle cuffie della traduzione simultanea…insomma facevo tutto quello che era in mio potere per disporre di un po’ di denaro. Quella volta mi chiamarono all’Esselunga per fare da “ragazza immagine” al banco frigo con i prodotti dell’Alto Adige. Scelta per le mie sembianza decisamente nordiche e per essere in possesso di un bel drindl, costume tirolese.  Fra sorrisi, invito ad assaggiare speck, canederli e salamini, ogni tanto avevo giustamente una pausa. E da tempo mi frullava in testa un’idea: vedere come era fatto un Tampax. Adesso questa cosa farebbe decisamente ridere, anche perché online si trova una spiegazione e un’immagine per ogni tipo di curiosità. Ma allora erano i primi anni Sessanta. E il dibattito con le mie amiche era: ma una vergine può indossare sto coso? O perde la sua virtù? E così io decisi di dare un’occhiata. Presi un pacchetto di Tampax, andai in bagno, aprii la confezione e constatai che si trattava di un cilindretto di ovatta pressata munito di un filo. Il che non mi illuminò assolutamente e il dubbio atroce rimase. Tornai alla mia postazione di lavoro con la scatolina, la misi insieme alla borsa, decisa a pagarla alla fine del mio lavoro. Ma dopo poco si avvicinò il direttore del supermercato e mi accusò di furto. Io mi difesi come potei ma ero stata vista, la refurtiva era nella mia borsa, ergo ero una ladra. Mi mandarono via all’istante. Io, in assoluta buona fede e incazzata nera, andai da mio padre e gli raccontai tutto. Lui all’epoca era la seconda autorità militare della Regione Toscoemiliana, Generale Comandante di tutta l’Artiglieria. Bocciata l’idea di prendere a cannonate il supermercato di Mr. Caprotti, scrisse una bella lettera sulla sua carta intestata e la inviò. Dopo una settimana arrivò la risposta:  l’Esselunga mi chiedeva umilmente scusa e mi proponeva un altro lavoretto. Che io rifiutai. Tanti anni dopo,  andai a Londra per le svendite di fine anno con una delle mie più care amiche.  E lì scoprii che era un’abilissima e compulsiva cleptomane. Insieme a lei, sempre munita di borse e di un paio di forbici, rubai di tutto nei grandi magazzini londinesi. Con le forbici tagliava i cartellini, strappava i codici a barre. Andavamo alle casse pagando due e prendendo almeno il doppio. La cosa più voluminosa e meno cara veniva pagata, le altre in fondo alla borsa o nelle nostre tasche. Ogni volta il passaggio alle casse era una scossa di adrenalina. Non ci hanno mai prese. Da lei ho imparato che in ogni grande magazzino c’era una telecamera che girava, la cui microscopica luce era posizionata appena sotto il soffitto. Quindi bastava rubare quando la telecamera era appena passata. Se non c’era quella, c’era la sicurezza, facilmente individuabile. Alla prima distrazione, zac! Devo confessare che mi sono divertita molto. Al punto che, quando  lei, stanca, tornava in albergo, io continuavo da sola.

Siamo rientrate in Italia con un ricco bottino, anche il mio amore ha ricevuto i suoi regali e si è molto divertito ai racconti. Grazie al cielo, alla vista della patria terra, mi sono rinsavita. Mi sono immaginata beccata alla Rinascente e poi a spiegare ai miei clienti pr e alle redazioni per cui lavoravo, perché avevo due maglie di cachemire sotto il cappotto. E non lo ho fatto mai più. In compenso sono iniziati i furti subìti, un bel numero. Il più brutto a Bari, davanti alla Cattedrale,  improvvisamente accerchiata da un numero di ragazzini, due in sella a una Vespa che mi tiravano la borsa dalla spalla, io che resistevo urlando con tutto il fiato che avevo. Ma tutte le finestre rimanevano ermeticamente chiuse, alle due del pomeriggio. La fortuna – grande – ha voluto che avessi il cellulare in tasca e  che, uscita dalla caserma dei carabinieri  dopo la denuncia, trovassi la mia borsa abbandonata vicino al cassonetto con tutti i documenti, la carte di credito, eccetera. Mancavano solo i contanti. E la mia assicurazione ha pagato per il polso slogato .

Poi mi hanno rubato un  congruo numero di portafogli da borse e zaini. Io sono un incrocio fra un ferroviere e una hostess di viaggi aerei a lunga percorrenza: non so quanti milioni di chilometri ho fatto, con tutti i mezzi immaginabili. Dunque, la possibilità di essere derubata e borseggiata aumenta ovviamente di molto. I più divertenti sono stati quelli sventati. Un esempio: cammino verso un concerto, mani in tasca, da una parte le chiavi di casa e dall’altra il cellulare. Spintone violento a destra, tiro fuori un attimo la mano sinistra dalla tasca dove ho il cellulare, la rimetto e…trovo un’altra mano! Mi giro di scatto e ho davanti un fanciullo con cappuccio della felpa abbassato sul viso che mi guarda con commiserazione urlare “brutto ladro di merda” e se ne va. Però il cellulare resta in mio possesso. Ma si vede che era nato male. L’anno dopo, sola, malinconica e provata da tristi accadimenti, in un lungo passage di Parigi sto andando a prendere la metro. Il telefono sempre nella stessa tasca sinistra, stavolta però profondissima. Tiro fuori la mano per aggiustarmi il cappello, la rimetto e, oplà, il telefono non c’è più. Con tutti i miei numeri, il green pass  allora  indispensabile e la carta di imbarco per tornare a casa. E’ la vigilia di Natale, e sono completamente sola. Posso scegliere se sedermi su una panchina e piangere o respirare e continuare a vivere. Scelgo la seconda. Torno in albergo, mi cambio, vado al concerto di Natale nella chiesa della Madeleine, poi nella mia stanzina sui tetti mi faccio la mia cenetta con champagne e gourmandises.  Con l’aiuto dei meravigliosi receptionist dell’albergo, recupero numeri e documenti.  Ma quest’anno, a Natale, sono in Germania con una delle mie famiglie adottive. No, a Parigi da sola non ci vado.

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Marina Baumgartner
Marina Baumgartner, romana di nascita e fiorentina d’adozione, vive e lavora a Milano, città che adora. Giornalista, ha scritto di viaggi, di persone, di storie fantastiche, di Paesi lontani. Ma anche di cibo e vini buoni, due grandi piaceri della vita. Lavora come copywriter per un’agenzia fiorentina, piena di belle idee e di bella gente. Ama viaggiare, molto spesso da sola, la buona musica, essere innamorata, le bollicine, gli spaghetti al pomodoro, la solitudine di fronte al mare, gli abbracci e gli amici veri. Scrivere è il suo respiro.

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