Lenzuola pulite

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(Mi hanno chiesto quando avrei scritto un racconto meno triste. E io di “meno triste” nella vita conosco solo il sesso, quindi questo pezzo parla un po’ di sesso, ma alla fine mi pare triste lo stesso.
Ah. Vorrei dire anche che ogni fatto, persona o menata raccontata qui è frutto di fatti reali rimaneggiati, lievemente, dalla fantasia. Spero che nessuno si senta turbato. La vita è una divertentissima faccenda piuttosto complessa e comunque sono sempre disponibile a una scazzottata o a uno shottino)

Perché io sono io quando mi infilo nuda nel letto di uno sconosciuto.
E dopo un anno di Noi, di luoghi assurdi dove fare l’amore, di travestimenti arditi, giochi estremi, sempre occhi dentro agli occhi, sempre pieni di fame e di sete perché solo quando i nostri corpi si univano il mondo intero trovava pace, dopo un anno di questo amore così folle da dover essere, infine, negato, ritrovarmi a fissare il muro di una stanza aliena, mentre un uomo mai visto prima si muove dentro di me, mi fa sentire di essere nel posto giusto, di essere, ancora, di nuovo, la persona giusta.
Quella che volevo essere. Quella che ho costruito centimetro dopo centimetro.
E, lo sai, Perduto Amor? Non c’è stato un minuto, in quelle due ore, in cui io ho pensato a te. No, nemmeno quando piangevo. Piangevo perché stavo godendo. E quando a un certo punto lui è andato in bagno e io ho guardato la finestra, ho pensato che non ricordavo nemmeno la tua voce.
Ora tu sei nel tuo, brutto, letto coniugale dove si possono attaccare le culle dei bambini.
Io in uno splendido letto in ferro battuto, di quelli che puoi tenerti alle sbarre mentre ti sbattono forte, dove ti possono legare con i collant alla testiera.
Tu leggi un libro che io ho regalato ai tuoi figli, cucini una cena di pesce per suoceri e genitori e, forse, ti senti felice e soddisfatto di aver fatto tutto per bene.
Io, invece, urlo (“più forte”, mi ha chiesto) nel letto sudato e sfatto di un appartamento di cui non so neanche l’indirizzo.
Tu fai la tua passeggiata domenicale, guardi le foglie della nostra città cadere, forse passando accanto a quella panchina ricordi quanto siamo stati felici.
Io coccolo un gatto di cui domani non ricorderò il nome e il mio pomeriggio passa scandito dai colpi forti di un uomo che 1, 2, 3, 4… ti caccia via dalla testa. E penso di star facendo tutto per bene.
E vaffanculo all’amore. Perché la volta migliore è la prima volta che succede. Quando non sai come è fatto quel corpo, quando non ti immagini come farlo vibrare, quando senti per la prima volta il rumore dei suoi fianchi che sbattono contro i tuoi, quando lo senti gemere e guardi il suo viso che si contrae. Ed è un viso bellissimo.
E sembra che sia tutto perfetto, dal primo attimo, quando mi dice “prendiamo il caffè sul divano?” e mentre disquisiamo animatamente chiedendoci se “Il sol dell’avvenire” sia il testamento morale di Moretti, lui appoggia la sua mano sulla mia coscia e poi mi bacia e mi dice “andiamo di là?”. E allora mi riscuoto. E torno in me stessa. Torno quella me che mi sono negata quando ho pensato che i miei sogni dovessero essere modellati su quelli di un altro, per quella piccola, stupida, immensa cosa che chiamiamo Amore. Che mi sembrava l’amore della mia vita. Che lo era. Che lo è e lo sarà probabilmente per sempre. Ma a un certo punto anche basta. Non sono stata io a mollare, ma ora sono io a dover rinascere.
Ed è in quel momento, è in quell’ “andiamo di là”, detto con tono dolce e deciso, che resuscito. E ritorno quella che ci ho messo un sacco di anni a diventare e che per un po’ si è appannata.
Perché io sono una puttana.
E l’amore, per me, non vale niente se l’alternativa sono i colpi di reni di uno sconosciuto che ha gli occhi di Helmut Berger e un cazzo enorme e dopo due ore dentro e fuori, su e giù, con ritmo serrato, vado in bagno e allo specchio rivedo, finalmente, la mia meravigliosa faccia da culo. E il mio sorriso intatto. La luce sotto la pelle.
Bentornata a casa.
Sorrido allo sconosciuto, è quasi sera. La cucina è fredda. Rimetto le mutande e il reggiseno, le scarpe rosa con il tacco alto, la giacca del tailleur.
Mi siedo sullo sgabello alto “prendiamo un altro caffè?”, mi dice, “ci sto”, rispondo.
E mi guardo, così. In lingerie e décolleté. Le cosce tatuate. Non mi sono nemmeno depilata bene. “Quanto zucchero?” “Uno e mezzo, è una vita difficile”. Lui ha il maglioncino e le mutande. I piedi scalzi.
Parliamo di politica. Di errori di gioventù. Di Giorgio De Chirico.
Il sole è andato via da un pezzo.
L’intimità che si crea fra due sconosciuti che hanno appena scopato è difficile da giustificare. Fra mezz’ora probabilmente nessuno farà mai più parte della vita dell’altro. O al massimo ci si vedrà un’altra volta, ma tanto non sarà già più lo stesso brivido.
È per questo, credo, che nonostante tutto, anche stasera io penso a te, Perduto Amor. E sai cosa mi viene in mente, mentre infilo i pantaloni e saluto la gatta? Che io lo so che sei una puttana anche tu.
E tra mille cose è quella che ci ha fatto riconoscere.
E tra mille cose è quella che ci ha reso gemelli.
Anche se in quel pomeriggio di sole valdostano che sembrava di stare nella Valle dei Templi, mi hai guardata e mi hai detto: “Ricorda che io ti amo per questo” e mi hai toccato la tempia, “e per questo” e mi hai toccato il cuore, “e non solo per la tua fica e il tuo culo. Ricordalo sempre” …e io me lo ricordo sai. Anche se l’amore poi forse non è bastato. Io me lo ricordo.
Ma ricordo anche quanta vita c’è nelle lenzuola pulite di un letto corsaro. E quanta me. E quanto orgoglio di essere una donna, e lo sai bene, Perduto Amor, che sa ballare con i lupi.
“È stato un bel pomeriggio”
“È vero. Magari ci rivediamo”
“Magari sì”.
E via, di corsa, per le scale.
E poi una corsa in autostrada, al buio.
Bentornata a casa, ragazza.

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