Due pezzetti di mondo

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Capita così che finisca un amore.
Quasi sempre te ne accorgi quando ne sta nascendo un altro.
E guardi il telefono incastrato fra una pila di libri che ti sei ripromessa di leggere e un vaso che, ora che lo fissi con attenzione, ti accorgi essere brutto e pericoloso, così nero e con gli spigoli acuminati. Ti avvicini con circospezione e poi lo afferri con decisione, non lo ricordavi tanto pesante, tanto che ti scivola quasi dalle mani. Si frantumerebbe al suolo se non fosse per il tuo spirito conciliatore che ti costringe a fare uno scatto per salvarlo. Mentre ti alzi lo maledici, stupido regalo.
È un momento qualsiasi di una giornata come un’altra.
Indugi ancora un attimo accarezzando la cornetta con la testa piegata da un lato. Poi vai a prendere una busta che tieni in una scatola nell’armadio. La stringi forte. Il cuore accelera e il fiato si accorcia.
Vai in bagno perché non ti sei ancora lavata i denti. Spazzoli con estrema attenzione un angolo dell’incisivo sinistro superiore sul quale sembra essersi formata una patina opaca. Non te n’eri mai accorta prima, sarà colpa di questo specchio nuovo così frivolo e così bello. Mentre cerchi di fare chiarezza sul dente ti guardi negli occhi non ancora truccati e allora senti la voce che sussurra: “lo sai che continui a sembrarmi bella?”. Smetti di guardarti: quel dente ricomincia ad apparirti sufficientemente bianco.
Capita così. Mentre ti muovi verso la cucina e fai caso al fatto che ci sono un sacco di spigoli nel tuo arredamento. Ti infili le scarpe nere che sono troppo lucide e troppo alte per i tuoi gusti, “A me piacciono”, aveva detto una volta lui di sfuggita, ed erano finite nel tuo armadio. Come quei cereali maledetti color ospedale con i pezzi di frutta rinsecchiti, che promettono di far tirare su senza fatica zip di pantaloni che ti stanno più attillati della pelle e che indossi soltanto quando lui dice: “Forse passo stasera”.
Capita così, che una mattina del dicembre più freddo degli ultimi mila anni tu decida di riappropriarti della tua vita.
Sorridi ai biscotti farciti, e mastichi piano seguendo idealmente la poltiglia di cacao che scende nel tuo apparato digerente e nutre di buono il tuo corpo. Poi apri il cestino e ci metti dentro con ordine le scarpe e i cereali.
Vai in salotto e ti lasci andare con dolcezza su una poltrona, la testa un po’ piegata e gli occhi persi, che a guardarti si direbbe che tu stia fissando una collezione di bizzarri fantasmi. Forse, dopotutto, è stata tutta colpa del matrimonio di Fiore.
“Trovi assolutamente necessario che io venga, vero?”, aveva detto cantilenando le parole, la faccia immersa nel giornale, “voglio dire, sai, non sono certo il genere di persone che frequenterei io…mi sembrerebbe tutto un po’ falso”.
E poi eccoti lì, sull’altare, accanto a lei come il primo giorno di scuola, con la tua “specie di tunica greca e quelle scarpe di leopardo scuoiato” e Fiore splende dentro l’abito tutto raso e pizzo, e il suo Paolo se la mangia con gli occhi, e poi ci sono Simona e Alberto, la Fede e Ale, Viola con il suo principe.
E tu hai sorriso tutto il giorno. Ma non lo sai come hai fatto.
Eppure l’hai giustificato sempre dicendo spesso “è il suo carattere” e a volte anche “io credo cambierà”.
Quando riapri gli occhi la tua attenzione viene colpita dalle maschere di legno attaccate alla parete sopra il televisore. Sono tre, di colore scuro. Hanno espressioni beffarde e sembrano deriderti. Ti alzi, prendi una scaletta dallo sgabuzzino, sali un gradino per volta, fino a trovarti con loro faccia a faccia. Cominci a tirarle via dal muro ma urlano con le loro bocche cucite: “Algeri! Le stelle! Le Jardin d’Essai!”. Stringi gli occhi, le butti per terra una ad una. Noti con orrore che non si sono nemmeno scalfite.
Vai in cucina, scavi nel barattolo del miele e aggiungi un abbondante cucchiaio a un the già freddo, abbandonato sul tavolo. Ti soffermi a guardare con quanta fatica il miele si stacca dall’acciaio e con quanta determinazione rifiuta di amalgamarsi al gelido brodino nella tazza.
Ti alzi di scatto in piedi e vai alla portafinestra. Poi la apri con gesto deciso e ti trovi sul balcone dove nonostante la mattina inoltrata ci sono ancora un buon numero di gradi sottozero. Rimani così a guardare fuori. Anche se la tua pelle si sta arricciando sulle braccia scoperte e piccoli aghi ghiacciati ti pungono il viso non ci fai caso: appoggi le mani al tuo ventre come a costruire un nido di calore. Era da un sacco di tempo che non passavi così un po’ di tempo.
Il mio bagno doveva essere rosa, pensi. E come fa un colore ad essere frivolo?
Quando squilla il telefono stai ancora guardando un orizzonte troppo ingombro di colline imperfette, illuminato da un sole pallidissimo che non ha la forza di imporre i suoi colori. Ti scuoti come da un sogno e quando leggi il suo nome sul display tremi un po’ sulle gambe, ma non ti muovi, è solo il freddo, ti dici.
“Pronto”
“Pensavo lavorassi stamattina.”
“No”
“Come mai sei a casa?”
“Un mal di testa improvviso.”
“Beh, avresti potuto prendere qualcosa e andare, no?”
Silenzio.
“Ehi, tranquilla, dicevo solo così per dire.”
“Volevi qualcosa?”
“Solo sentirti.”
“Ok.”
“E anche dirti che stasera magari vengo da te.”
“Scusa, c’è il postino, devo andare.”
“Ti amo.”
“Sì.”
Capita così che finisca un amore.
Che ovviamente non c’è nessun postino alla porta. Che improvvisamente le due parole “Ti” e “amo” sembrano due sacchetti pieni di farina con un buco piccolissimo sul fondo, non si sa chi l’abbia fatto e come non ci sia mai accorti della sua esistenza, poi un giorno li guardi e sono vuoti e la farina è a terra, è ovunque. Ce n’è sul televisore dentro al quale sono passati i film che guardavate con i piedi sul tavolino e la coperta sulle ginocchia ridendo della vostra aria da bellissimi pensionati. Ce n’è, e tanta, nelle pentole dalla cucina, dove passavate le domeniche che ti erano concesse a sfidarvi, tu, indiscussa primadonna della pasta fatta in casa, lui, eroe dei dolci senza macchia e senza paura. E c’è uno strato sottile di farina sui suoi vestiti elegantissimi nell’armadio, i suoi profumi in bagno, i tuoi gioielli che sa scegliere come se ti leggesse nel pensiero…
Farina ormai sporca, da buttare.
Torni a sederti sulla sedia in cucina, appoggi la testa sulla mano. Ti concentri sul rumore lento del tuo respirare e ti accorgi che ti senti bene, anche se hai un po’ freddo. Accendi il camino in sala con gesti lenti, aspetti che il fuoco si faccia alto e poi ci butti dentro le tre maschere algerine.
Capita così che finisca un amore.
Può succedere all’improvviso. O forse all’improvviso solo te ne accorgi.
In fondo non è molto diverso da come capita che cominci un amore.
Un pomeriggio in un piccolo bar, ci sei tu distratta davanti al portatile, mentre consumi il tuo pasto veloce prima di tornare al lavoro. C’è lui che appoggiando due calici di vino sul tavolo dice: “Bisogna sempre celebrare una rossa”.
Per un attimo temi sia un pazzo. Ma lui sorride e ha gli occhi azzurri e ti fa tenerezza la camicia arrotolata sulle braccia che tradisce l’abito perfetto.
E così tu non sei andata al lavoro quel pomeriggio e lui nemmeno. I calici di vino sono diventati quattro. E quando l’agente immobiliare che dovrebbe vendergli casa dice: “Questa piace alla sua signora?” ridete insieme e tu rispondi: “Sì”.
Fra una manciata di mesi saranno passati cinque anni da quella mattina.
Cinque anni di “Appena posso richiamo”, di “Passo stasera, ma scappo domani prestissimo”. Cinque anni a camminare su una corda fine tesa fra due montagne, che se cadi muori ma se alzi gli occhi vedi il Paradiso.
E allora può anche finire così un amore.
Perché la prima che dovrebbe celebrare questa rossa sei tu.
La mattinata è finita. Ora comincia la tua danza.
Con passi veloci vai verso la camera da letto, togli le coperte, le lenzuola, il coprimaterasso. Butti tutto in un angolo con un unico gesto da gran teatro. Poi, con la stessa foga, cominci a togliere dai cassetti ogni singolo pezzetto della sua vita in quella casa. Ogni maglietta per la palestra, ogni camicia perfettamente piegata, ogni maglione, tutto quel nero e grigio. E dalla stanza che usate come studio, e che ora ti immagini con le pareti color pastello, tenere e frivole insieme, togli i suoi libri, le riviste di architettura, i cd. Fai tante pile educate, dimenticandoti di mangiare, di chiamare al lavoro. Una linea di sudore ti colora la fronte, ma ne vale la pena perché è la prima volta dall’inizio di questo inverno lunghissimo che finalmente non senti più freddo.
Passando davanti allo specchio grande della camera non trattieni una piccola risata: incastonata dentro al tailleur scuro, le calze con il pizzo, senza scarpe, spettinata e con il viso provato sembri una specie di eccentrica, operosa vedova.
Sembri anche un po’ folle. È mai possibile, sciocca avventata che non sei altro, che tu non possa pensare di dare un’altra chance al tuo amore? È mai possibile che capiti davvero così, di punto in bianco, come se nulla fosse, che finisca un amore?
Ti guardi intorno, e la casa e ferma e zitta: accanto alla porta hai accumulato tre scatoloni abbastanza grandi più uno piccolo che contiene solo qualche sciocchezza per il bagno.
Ecco il bilancio del tuo amore. Ci aggiungi tutte le promesse mai mantenute, i “no” che hai dovuto ingoiare, le case separate, quei suoi bambini maledetti che si sono portati via i week-end, le ferie, le feste comandate. Tutto lì. Tre scatole ammucchiate sulla porta di casa.
Arthurmiller si alza dal suo cuscino e ti viene accanto cominciando a fare le fusa. É colpa sua se cominci a piangere, seduta sul pavimento, con il viso affondato nel suo morbido mantello tigrato. Non sai cosa succederà da questo momento in poi, se saprai affrontare le conseguenze: come farai a mettere una mensola, chi ti abbraccerà dopo un incubo, se avrai la forza di fare a meno della sua voce. Eppure nel momento in cui ti alzi in piedi, riappoggi il gatto sul cuscino, sposti con i piedi gli scatoloni sul pianerottolo e spalanchi la finestra per respirare l’aria di questo eccessivo dicembre, ti sembra come di essere una sopravvissuta a qualche disastro o appena guarita da una malattia lunghissima. O come uno di quei puledri che si vedono a volte nei documentari: ci mettono un sacco di tempo a tirarsi in piedi su quelle zampe sottili, ma presto cominceranno a correre.
Poi è di nuovo il telefono a distoglierti dai tuoi pensieri.
Sai chi è. Prima di rispondere ti aggiusti i capelli, come se questa tua nuova vita esigesse un particolare contegno.
“Sì?”
“Stella? Sono Fabio!”
“Fabio, caro. Buongiorno. Come stai?”
“Io bene. E tu?”
Esiti un attimo prima di rispondere.
“Bene” dici decisa.
“Ti sei dimenticata del nostro appuntamento, vero?”
“No.”
E come avresti potuto?
“Guarda che ti aspetto”
Puoi farcela, ti sussurrano le fusa di Arthurmiller.
“Posso farcela” gli dici. E sei abbastanza certa che non si sia accorto che stai parlando con te stessa.
Ti prepari un po’ meccanicamente, alzi il volume della radio, aggiungi con decisione altra polvere di caffè alla moka stracolma.
“Be good to yourself” cantano George Michael e Paul McCartney dalla radio e così decidi che lo zucchero deve essere abbondante nella tazzina.
La doccia mette un punto e a capo deciso.
Non hai idea di quanto tempo passi, l’acqua scende e monda, la tua stupidità, il suo ridere, la tua fragilità, i suoi silenzi, i tuoi assensi.
E non lo sai se è per il rumore del getto che copre tutto, o è l’odore insistente e morbido delle orchidee che ti riempie dentro, ma tu lo senti. Te lo devi. Non solo a te, ma a te prima di tutto.
Poi ti asciughi i capelli, volteggi fino all’armadio…
Sei davanti allo specchio, e lei ti sta guardando.
È perfetta nel suo peplo di seta nera da vedova glam, nelle décolleté animalier dalla suola rossa, con il suo rossetto dolce vita, lo chignon fulvo.
È lei.
La donna che hai deciso di poter essere.
Cammini per la città assaggiandone tutti i rumori e i colori: uomini che corrono in ritardo verso le loro vite, donne che trascinano cani svogliati, amate forse amanti; chi parla al cellulare urlando, chi sussurra, chi chiede scusa.
A un tratto vai quasi a sbattere contro qualcuno: è un vecchio con la barba incolta, odora di strada ed è vestito con un completo elegante tutto rattoppato con colori variopinti. Potrebbe sembrare un clown o un’allucinazione. Vi guardate negli occhi.
I suoi sono grigi, profondi e lucidi. I tuoi chiarissimi, molto truccati e veri.
Non sai cosa ti trattenga mentre lui sprofonda la mano nella borsa cenciosa che porta con sé.
“Posso offrirvi un pezzetto di mondo, mademoiselle?
Tira fuori due piccoli tasselli di un puzzle. Tu allunghi una mano e li prendi. Quando se ne va, è passato un attimo, li stai stringendo forte.
Fai un respiro profondo.
Fabio ti accoglie sorridendo.
“Accomodati, sono subito da te”.
Ti siedi su un divano.
Apri la mano: un pezzetto è solo mare, blu profondo, nell’altro c’è un po’ di terra. Non potresti dire che parte del planisfero sia: è verde e un po’ giallino. Un’isola forse?
Quando Fabio ti fa entrare, il tempo comincia a scorrere a una nuova velocità.
“Lo vedi?” ti chiede, indicando lo schermo.
Eccolo…il tuo nuovo amore: un puntino minuscolo in una gelatina grigia.
Non lo sai se avrà le lentiggini, se adorerà i gatti, l’haute couture e il pop inglese.
È presto perfino per dire se sarà un maschio o una femmina.
Ma avrà una madre di cui essere orgoglioso, e due pezzetti di mondo…
Potrebbe bastare per essere felici.

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Darkene F. DiCembre
Darkene F. DiCembre, torinese, vive fra le morbide colline del Monferrato in una casa enorme in perpetuo disordine. Innamorata persa della vita e della bellezza si annoia, però, facilmente. Per questo scrive, si maschera e si contraddice. Creatura lievemente mitologica, mezza prof di lettere/mezza reginetta del boudoir, perdigiorno perennemente in bilico fra estasi e disperazione, racconta storie meglio di quanto sappia vivere. Per fortuna su queste pagine si limita a scrivere.

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