Oggi è domenica, domani si muore. *

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Piove, stasera.
Come negli stupidi film americani: lei guarda lui, le lacrime si confondono con la pioggia, lui le prende il viso fra le mani e la bacia con passione. E tutto si aggiusta. La noia, gli errori, i tradimenti, il non capire più un cazzo l’uno dell’altra. Non importa. Il temporale lava peccati e ipocrisie e via con i titoli di coda.
Ci pensa ogni volta, quando inizia a piovere.
Una volta, forse mille anni prima, lui le aveva detto quanto amasse la pioggia di notte. “Anche io” aveva risposto lei. E quella banalità era sembrata a entrambi una coincidenza preziosa.
Hanno mangiato del pesce, bevuto un bicchiere di troppo, riso per qualcosa di stupido.
Quando hanno parcheggiato lei ha messo una mano su quella di lui e gli ha chiesto di restare un attimo lì ad aspettare la fine della pioggia. Odia bagnarsi i capelli.
“Ti ricordi quando avevamo appena comprato questa macchina e non sapevamo far funzionare i tergicristallo?” “Sì. Ci siamo fermati proprio qui a fare le prove”- risate – “ti ricordi che subito non riuscivamo neanche a far girare la chiave?” “Vero. Neanche a infilarla a dire il vero!” – risate-.
“Quando hai smesso di amarmi?”, chiede lei diventando improvvisamente serissima. “Ma che dici, dai”
“Dico davvero. Quando hai smesso di amarmi?”
“Io non ho smesso di amarti”. Glielo dice ma sta fissando le geometrie delle gocce sul vetro.
Le loro mani si stringono, un bacio, la lingua che cerca la lingua, che scava le labbra, in quella bocca che è casa. La mano di lei dentro la maglia di lui, a graffiarlo, stringerlo, come a voler strappare un po’ di carne per riappropriarsene.
E lui che interrompe il gioco: “Aspetta, spiove. Mi sa che dobbiamo approfittarne adesso per rientrare”
“Se è proprio necessario”
“Dai muoviti, se no poi dici che ti bagni i capelli!”
Entrano in casa, lui accende la televisione.
Lei va in bagno. Ma prima si ferma un attimo sullo stipite della porta. Lo osserva. Si è liberato della maglietta, dei pantaloni. Li ha piegati. Lei indugia nel guardargli le cosce. Lui odia le sue cosce. Dice che sono grosse, sgraziate. Lei pensa che anche fra mille anni si ricorderà della compattezza dei suoi muscoli, della tensione della pelle dall’inguine al ginocchio, di quella carne perfetta che adesso se ne sta mollemente adagiata sul divano in quella che pare una totale inconsapevolezza del mondo circostante.
E lei lo ama ancora?
Prova a spiare, nei movimenti che conosce a memoria, una scintilla. Qualcosa che le faccia dire: ho scelto te, fra tutti gli altri e tu hai scelto me, fra le altre, perché ci siamo riconosciuti. Qualcosa che la riporti in un piccolo ristorante sul lago, a quando lui la spiava mangiare e le diceva “ogni tuo gesto mi innamora”.
Sa quale combinazione di tasti lui ora toccherà sul telecomando, che poi abbandonerà sul bracciolo. Sa che prenderà il cuscino piccolo, se lo sistemerà con la mano sinistra sotto la testa, che ci metterà un paio di tentativi ad aggiustarlo correttamente. Poi cambierà posizione. Scivolerà più in basso fino a socchiudere gli occhi. E inizierà a russare. Lei si avvicinerà piano, gli toccherà la spalla, poi la guancia e dirà “Amore, vai a letto”. “Ma io non sto dormendo”. E avanti così in un piccolo battibecco che forse un tempo è stato anche tenero, e che oggi le sembra una perdita di tempo. Prosegue verso il bagno, lava i denti. Guarda la donna che la fissa dallo specchio. I segni lievi intorno alle labbra, due righe che partono dai lati degli occhi e che è certa non ci fossero mai state. Prende una delle mille creme sparse un po’ ovunque, strofina con forza la pelle ai lati della bocca. Mandare via. Via. Gli anni, le cose che si rabbuiano, la noia che ti si spalma sulla pelle.
O andare via.
Se solo pensasse di poter avere quel coraggio.
Immagina di tornare in sala, con passo deciso, frapporsi fra lui e la televisione. Fare un respiro profondo e dire: “Amore. È finita. E non rispondere niente. Per favore. Non allunghiamo questo strazio con la rabbia, con le colpe. E tantomeno con il giochino del riproviamoci. Siamo due adulti. Abbiamo vissuto un po’ di vita e letto un sacco di libri. Sappiamo che saremo tristi e proveremo nostalgia. Sappiamo che per tantissimo tempo e forse per sempre un divano grigio mi ricorderà sere infine passate con la testa appoggiata alla tua spalla. Che un giorno in macchina mi metterò a pensare a quella serie tv che non abbiamo finito di vedere. E piangerò. Che vedrò in vetrina l’olio per la barba che ti regalavo io e mi scapperà un sorriso e la voglia di sapere se lo usi ancora. Che forse tutta la vita quando passerò fuori dal negozio dove ci siamo incontrati e sentirò il profumo di quel pomeriggio di marzo in cui mi avevi chiesto aiuto per comprare una camicia e ti toccavo i fianchi con insistenza perché il tuo corpo per me era già casa, chiuderò gli occhi e sentirò il cuore perdere un battito. Ma tutto questo non è amore. Non è futuro. Perché poi so che la mia testa scorderà le mie lacrime di notte. Che non avevamo più voglia di sfiorarci nemmeno per salutarci al mattino. Che ho smesso di raccontarti i miei pezzi d’anima. Che a tavola, la sera, parliamo dei titoli del telegiornale. Che il mio corpo non ti dà più nessuna emozione, e me ne accorgo perché mi passi accanto e stai attento a non sfiorarmi e se accade, mi chiedi scusa. Come un uomo gentile su un tram. È la verità è questa. E quando questo accade, Amore mio, non c’è più tempo. La nave deve cambiare rotta, l’isola è ormai svuotata. E ci saranno nuovi lidi. Perché così accade. E accetteremo che nulla di quello che siamo stati noi, questa casa, tutte le nostre cose, fosse sbagliato. Era un “noi” più antico, che ora deve esser lasciato andare a vivere in un dolcissimo ricordo. Un ricordo che farà bene, talvolta. Perché tutto ciò che è esistito esiste in qualche modo. E no, non mi sto mettendo a fare della filosofia da poco, Amore.
Amore. Amore che sei stato tu, per molto tempo. Ma che da troppo tempo non sei più la persona che si riflette dentro quel nome potentissimo.
E, davvero, per favore. Senza colpe. Le cose accadono. Ed è un’illusione da piccoli dei pensare di poter fare qualcosa per cambiarle”.
Nello specchio i suoi occhi prendono calore, le guance vita. Si mette in punta di piedi per guardarsi meglio.
Eccomi.
Sono io.
Torna in salotto con passo svelto.
Lui dorme. La bocca aperta, la testa reclinata, tiene ancora il telecomando in mano. La registrazione della Liegi-Bastogne-Liegi non è nemmeno a metà. “Amore…andiamo a letto, che domani hai mal di schiena”.
Grugniti e bofonchiamenti.
“Quando sei morto esattamente?”, gli sussurra in un sibilo.
Lui tira un respiro profondo, apre gli occhi, per un attimo la guarda come se non l’avesse mai vista.
“Ehi, bimba, hai detto qualcosa? Non ho mal di schiena”.
“Vado a letto”
“Lavo i denti e arrivo”
Sono le due. Si spengono le abat-jour.
“Buonanotte Amore”, lacrime calde bagnano il cuscino. “Buonanotte Bimba”, sbadiglio profondo.
Oggi è domenica. E chissà se è la volta buona che si muore davvero.

* Pier Paolo Pasolini

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