Libera di essere italiana, giapponese, entrambe le cose o nessuna delle due

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Per il mio compleanno sono andata in un ristorante che non avevo mai provato: Aalto.

Nonostante il nome la Finlandia non c’entra nulla e neppure l’omonimo architetto e designer.

Prima di andarci mi sono informata e mentre leggevo sul sito “La cucina di AALTO è libera, da ogni definizione o modello prescritto” sono stata interrotta da una telefonata. Durante la call l’aggettivo “libero” mi tornava alla mente facendomi naturale simpatia. Attaccato il telefono ho ripreso la lettura: “È libera di essere italiana, giapponese, entrambe le cose o nessuna delle due. Non tracciare confini esprime la possibilità di superarli.” Queste ultime righe sembravano scritte apposta per me: è da quando sono nata che vivo la dicotomia Italia-Giappone ed è una vita che cerco di far convivere le due cose. Oramai ho un catalogatore mentale che ogni volta che faccio o dico una cosa incasella tutto in automatico: questo è molto giapponese, quest’altro è molto italiano. Ma fermi tutti: e se invece fosse molto Yuki e basta?! Solo ora mi rendo conto che sono sempre sia italiana che giapponese e a volte mai nessuna delle due. I confini sono paletti capaci di farci sentire al sicuro ma che per loro natura ci ingabbiano. Allora viva la libertà di essere senza confini!

È con questo ottimo proposito per il resto dei miei giorni che sono arrivata al ristorante, curiosa e fiduciosa, ma soprattutto con la mente aperta.

Appena arrivata sono stata accolta in un ambiente moderno, pulito, un po’ minimalista ma dai colori avvolgenti e, come piace a me, con le luci soffuse. Il personale, da subito empatico e attento, ha contribuito a scaldare un po’ l’atmosfera da ristorante stellato che a volte ricorda una chiesa per il silenzio religioso e la devozione dei visitatori.

Non tedierò nessuno con la descrizione minuziosa delle 8 portate (per chi fosse curioso le riporto qui sotto) che componevano il menù degustazione che ho provato. Dirò solo di come Aalto abbia mantenuto la promessa con dei piatti che non erano né italiani, né giapponesi e allo stesso tempo erano entrambe le cose.

L’amuse bouche  – una battuta di fassona avvolta in una foglia di shiso rosso acidulato all’umeboshi – mi ha aperto il cassettino di ben due ricordi. Un giorno d’estate in cui ero in Giappone volevo cucinare degli spaghetti al pesto per dei miei amici e mi sono ritrovata a fare il pesto con lo shiso, ossia il basilico orientale che di simile al basilico però non ha nulla in quanto risulta più vicino alla menta, l’anice e la cannella con una nota agrumata. Lo adoro ma i miei spaghetti erano immaginabili. Il secondo ricordo invece è legato a quando da bambina divoravo la carne più famelica di un tirannosauro: una volta provata la carne cruda mi sono chiesta che bisogno ci fosse di cuocerla. Era già perfetta così. Arrivata alla quinta portata ero più che sazia, ma la curiosità di provare abbinamenti così particolari mi faceva dire “ancora! Ancora”! Come una bambina sulle giostre che non vuole più scendere. Ed è così che sono arrivata alla polpettina di riso allo zafferano. Qui la mia metà giapponese ha sofferto e la metà italiana non ha goduto. Il riso in Giappone è una questione molto seria, direi quasi sacra. Si mangia sempre, da colazione a sera. Il chicco deve essere piccolo e rotondo. Va lavato per togliere il glutine prima di cuocerlo e va cotto lasciandolo in acqua fino al suo totale assorbimento. Ma la cosa fondamentale è la consistenza finale: ogni chicco è separato dagli altri e morbido ma compatto, bianco cristallino e perfetto. Non esiste che sia diverso da come ve l’ho descritto. Quello che ho mangiato da Aalto era giallo, allo zafferano, con una presenza di burro che lo rendeva grasso e al posto dell’alga nori una foglia d’oro, omaggio a Marchesi, che non aggiungeva nulla in fatto di gusto, nemmeno la croccantezza dell’alga che scrocchia in bocca aumentando il piacere del boccone. Peccato poi la presenza dell’ostrica (sopra e non dentro come negli onigiri giapponesi) che accentuava la grassezza di questa polpettina di riso tipicamente leggera e “pulita” in Giappone. Su invito del cameriere ho usato le mani per mangiarla, ma se gli onigiri nippo sono compatti e si possono effettivamente considerare finger food, questo mi si è sgretolato in mano perdendo pezzi e lasciandomi le dita unte. Quel poco che sono riuscita a portare alla bocca è stato deludente. Toccatemi tutto, ma non il riso giapponese. Come si dice in Italia, scherza con i fanti ma lascia stare i santi.

Per fortuna dopo questo shock culturale è arrivato il dessert. E qui, chi non sa che in Giappone amano le creme, le panne e in generale i dolci molto dolci, ci sarebbe rimasto. La sfoglia croccante di cioccolato fondente cercava di non essere inghiottita dalla spumosa e dolcissima crema al cioccolato. Dopo l’untuosità della polpettina di riso non era proprio quello che avrei desiderato in finale, ma ciò che ha salvato il mio palato dal divenire diabetico è stato un eccezionale gelato al latte affumicato con cristalli di sale. Evviva! Altra piccola madeleine dei ricordi: sono tornata con la mente in Alto Adige quando d’estate il profumo del fieno esposto al sole per essiccare ti riempie le narici e la stube è pronta, in attesa di accoglierti per la cena con il suo calore e sentore di legno.

Mi ha conquistato? Devo ancora capirlo, però di sicuro mi ha spiazzata e la consiglio a tutti coloro che si sentono liberi e senza confini.

  • Sarde e yuba
  • Piselli, semi d’orzo e coriandolo
  • Patate, asparago bianco e midollo
  • Anguilla, wagyu e kombucha di sedano e mela
  • Spiedino di piccione
  • Spaghetti alla tsukemen con pollo e polpo
  • Yaki onigiri allo zafferano
  • Sfoglia al cioccolato e gelato al latte affumicato

 

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Yuki Tintori
4 chili e 750 grammi di Yuki hanno visto la luce il 22 marzo 1975. Capelli ricci, occhi a mandorla, una macchia mongolica. Niente collo. Questo è uscito solo verso i tre anni insieme al suo carattere volitivo che ha dato filo da torcere soprattutto alla madre. Cresciuta con severi principi nipponici (la maggior parte dei quali da lei sradicati non appena l’età glielo ha permesso) ha sempre avuto il senso del dovere e una vita irreprensibile (fino ad ora). Proprio per questo invidia le persone con un po' di follia. Lavorare in un ambiente creativo la aiuta. Ama passare il tempo libero guardando film d’azione o leggendo saggi inutili ma curiosi, sorseggiando whisky torbato e aspirando fumo alla menta. Visto che del domani non c’è certezza si gode ogni piccola cosa, soprattutto la natura perché capace di calmare la sua naturale irrequietezza.

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