Mani da origami

0
1137

Nei giorni seguenti la conversazione diventò ancora più fitta. Veder comparire il suo nome tra le notifiche del cellulare mi dava un piccolo brivido di piacere, per quanto ci fossi ormai abituato. Maia mi cercava spesso, a volte anche solo per chiedermi “Che fai?”, e quelle attenzioni casuali mi lusingavano.

Al contempo, però, lasciava che fossi io a prendere l’iniziativa dei nostri incontri: per il sabato successivo le diedi appuntamento in un caffè dove si potevano accarezzare i gatti, e dopo accettò di venire a cena da me. La baciai in cucina, davanti al risotto che si colorava di un giallo dorato. Non fu un bacio memorabile, ma i primi baci raramente lo sono: troppa ansia, troppa tensione. Con mia sorpresa, andò meglio quando facemmo sesso dopo aver visto un blando horror su Netflix. Maia inarcava la schiena mentre le succhiavo i capezzoli, e intanto mi teneva la testa premuta sul seno fin quasi a soffocarmi. In quei momenti potevo sentire la pienezza del suo piccolo corpo tra le mie mani, e saggiarne la resistenza quando facevo scivolare le labbra sulla sua pelle liscia. La ascoltavo mentre le baciavo il sesso, e continuavo ad ascoltarla anche quando entravo dentro di lei, per fare il bravo amante e soddisfare i suoi desideri.
Restò per la notte, ma non dormimmo granché. Ci girammo e rigirammo sotto le coperte, in posizioni scomode ma stranamente gratificanti, che intorpidivano a turno ogni mio arto. Lo facemmo ancora, e poi rimanemmo sdraiati a parlare sottovoce di quello che ci era piaciuto.
Mentre scorgevo il suo profilo nel buio della camera, pensai che tra quelle mura, in quel letto, nessuno l’avrebbe guardata male. Nessuno l’avrebbe giudicata, ricoperta d’insulti o rubato la sua immagine per renderla virale. Era un rifugio che le potevo offrire, insieme a quell’intimità di cui avevo tanto bisogno. Al mattino, quando la vidi tastare il comodino in cerca del cellulare, mi agitai al pensiero che il brusio della rete potesse contaminare la nostra pace; ma voleva solo controllare l’ora, e un attimo dopo tornò a raggomitolarsi fra le coperte. Era quello, pensai, il sollievo di vivere in un tempo sospeso. Quando non c’è niente che ti aspetta là fuori, e allora puoi crogiolarti nel tepore di un corpo che sonnecchia al tuo fianco. Era quello il piacere della condivisione, del conforto tra persone che smettono gli abiti logori della propria solitudine. Per anni ne avevo sentito la mancanza, ma solo adesso riuscivo a delinearne i contorni.

I nostri incontri proseguirono con lo stesso rituale. Ci accoccolavamo davanti a un film pieno di omicidi, finché il mio interesse non si spostava dai corpi martoriati delle vittime a quello liscio ed elastico di Maia. Benedetto dalla luce azzurrina del televisore, le baciavo i capezzoli fino a intorpidirmi le labbra. A volte mi stuzzicava la barba sempre più folta, a volte mi stringeva i capelli sulla nuca con la stessa intensità del suo piacere. Il giorno dopo ci scambiavamo sempre gli stessi messaggi:

Maia: Mi fanno ancora male i capezzoli

Io: Mi dispiace

Maia: No no, lo volevo

Io: Sono la mia droga, lo sai

Io: mi serve una dose al giorno

Io: vieni anche stasera?

Maia: Scemo

Cantora e i suoi esperimenti sociali non rientravano più nelle nostre conversazioni. Se andavamo da qualche parte, io mi guardavo intorno per cogliere un’occhiata furtiva o un commento velenoso, ma lei mi diceva di non pensarci. Ogni tanto su internet circolavano nuovi video. Qualcuno diventava virale, e relegava la nostra “fama” agli albori del fenomeno. Meglio così, pensavo. Saremmo potuti essere semplicemente un ragazzo e una ragazza che escono insieme, o qualunque cosa fossimo.
In quel periodo la mia prospettiva cambiò radicalmente: stavo frequentando una persona. Anche se non avevamo dato una definizione al nostro rapporto, Maia era diventata una costante nella mia vita, e io nella sua. Ormai si muoveva con sicurezza nel mio appartamento, sapeva dove trovare le tazze in cucina e dove buttare la plastica o la carta per la raccolta differenziata. Notavo questi piccoli dettagli quotidiani con un misto di stupore e compiacimento. Era la prima volta che qualcuno familiarizzava con i miei spazi. Ciò che mi disturbava, però, era la reticenza di Maia a farmi conoscere i suoi, di spazi. Diceva che non potevamo stare da lei perché viveva con la sorella, e che non potevo andare a trovarla in tipografia perché il lavoro la impegnava troppo. Non avevo problemi a rispettare la sua volontà, ma sentivo di compiere il solito errore: davo troppa importanza a un rapporto cominciato da poche settimane, e per di più su Tinder. Maia, dal canto suo, pareva viverla con più scioltezza e cautela, senza aspettarsi che diventasse qualcosa di serio. Almeno, questa era la mia impressione. Rispondeva alle effusioni con il pilota automatico, senza calore, e dimostrava iniziativa solo nel buio della camera da letto. Era come se non volesse formalizzare il nostro rapporto con tenerezze o gesti romantici, preferendo la semplice condivisione quotidiana e carnale.
Tirai fuori il discorso una sera, mentre cenavamo in un ristorante vicino casa mia. Maia mi stava raccontando di un altro ragazzo che aveva conosciuto su Tinder: un tizio che suonava l’handpan, ed era anche piuttosto bravo. Era stato costretto a venderlo per pagare l’affitto arretrato di un loft sui Navigli.
«Sì, ho sentito che sono strumenti costosi» dissi senza convinzione.
«Gli ha permesso di saldare almeno due mesi di affitto» rispose.
«Perché mi parli dei tuoi ragazzi di Tinder?» le chiesi all’improvviso.
Lei corrugò le sopracciglia, parve sorpresa: «In che senso?»
«Beh, pensavo avessimo superato quella fase.»
«Quale fase?»
Presi a grattarmi un prurito inesistente sul collo, dove la barba lasciava il posto alla pelle glabra. «Quella in cui siamo solo due che si sono conosciuti su Tinder.»
Maia ricadde nella sua ossessione manuale, e cominciò a martoriare un pezzo di pane fino a ridurlo in briciole sulla tovaglia. «Non capisco cosa intendi. È normale raccontarsi certe cose.»
«Non so, mi sembrano più discorsi da primo appuntamento. Condividere le proprie storie sfigate per sperare che vada meglio. Noi siamo molto più avanti, no?»
«Forse. Tu cosa pensi?»
Alzai le spalle. «Beh, mi piacerebbe considerarlo un rapporto stabile, più o meno.»
«Stabile? Nel senso, una relazione vera e propria?»
Annuii. «Sì, voglio dire… mi sembra che facciamo già vita di coppia, no?»
D’un tratto mi sentii come un tredicenne che manda un bigliettino alla compagna di classe: “Ti vuoi mettere con me? SÌ / NO”. Uscivamo insieme da un mese e mezzo, ancora poco per gli standard incerti delle relazioni odierne, ma non mi piaceva navigare a vista. Volevo capire se per noi potesse esserci un futuro immediato, se fossimo abbastanza legati da programmare un week-end insieme o cose simili. E cancellare Tinder, magari: io avevo smesso di usarlo da settimane.
Maia accennò un sorriso, e per un attimo fece vagare lo sguardo attorno a sé. «Abbiamo tempo» si limitò a dire. «Sto bene con te, ma non c’è fretta.»
Non ne parlammo più. Quando uscimmo dal ristorante, Maia disse che preferiva tornare a casa sua: il giorno dopo aveva da lavorare.

La mattina seguente non rispose ai miei messaggi. Provai a chiamarla nel pomeriggio, ma il suo cellulare suonava a vuoto. Mi preoccupai, non era mai successo niente di simile con lei. Notai che spesso risultava on-line sia su Facebook sia su WhatsApp, dove però ignorava qualunque mio tentativo di parlarle.
Per tutta la giornata mi torturai al pensiero della sua improvvisa sparizione, e mi pentii di aver fatto quel discorso la sera prima. Ci piace credere che impariamo dai nostri errori, ma la verità è che tendiamo a ricascarci in eterno, e anche con Maia sentivo di essere stato troppo precipitoso, troppo assetato d’affetto.
Valutai se contattare la sorella su Facebook, oppure cercare Maia direttamente in tipografia. Suonare al citofono di casa sua era un’altra opzione, anche se mi faceva sentire un specie di persecutore. In realtà ero pronto a ignorare le mie esigenze e farmi da parte se me l’avesse chiesto, ma volevo quantomeno una spiegazione. L’idea stessa del ghosting mi provocava la nausea.
Si fece sentire verso le sei, dopo che avevo faticosamente consegnato un capitolo della mia ultima traduzione. Vidi il suo messaggio galleggiare sullo schermo come un’isoletta solitaria:

Mi dispiace. Internet non dimentica così in fretta. Ho dovuto farlo.

Subito dopo ne seguì un altro:

Ti contatteranno loro

Restai inebetito a fissare lo schermo, come se quelle lettere potessero ricombinarsi e formare un messaggio più esplicativo. Non avevo idea di cosa parlasse. La chiamai quasi subito, ma non rispose. La pregai di spiegarmi qualcosa, ma le mie richieste caddero nel vuoto della chat. Poi, mentre stavo infilando la giacca per andare a cercarla in tipografia, ricevetti una telefonata da un numero sconosciuto. Era una voce femminile che avevo già sentito, giovane e gentile, chiaramente abituata ad ammansire l’interlocutore con dolcezza e diplomazia. Si chiamava Flavia, lavorava per l’Ufficio Relazioni con il Pubblico di Cantora: era stata lei a farmi firmare la liberatoria dopo l’esperimento del bambino infreddolito. Sul momento non riuscii nemmeno a collegare le due cose, ero troppo frastornato. «So che sei confuso» disse. «Ma lasciami spiegare.»
E mi spiegò.

Cantora aveva una sede in zona Porta Volta, dentro un edificio in vetro che rifletteva le nuvole e il cielo. Ci andai il giorno dopo. Flavia mi venne a prendere all’ingresso e mi guidò fino a un ufficio del primo piano. Era una donna sui trent’anni, con grandi occhi azzurri e pelle lunare, talmente chiara da lasciar trasparire le vene che affioravano sul collo e le braccia scoperte. Mi offrì un caffè, dicendomi quanto fossi generoso e di buon cuore. Non aveva mai avuto dubbi circa la mia storia con Maia: sapeva che non sarei stato influenzato dalla sua cattiva fama in rete, uno come me era superiore a certe cose. «Un altro si sarebbe tirato indietro» mi disse, sfiorandomi l’avambraccio con le dita candide. «Avrebbe avuto paura di rovinarsi la reputazione. Tu invece no. Hai seguito il cuore.»
Ascoltavo tutto questo in silenzio, annuendo di tanto in tanto. Mi sentivo al centro di una bolla di etere, ma in quello stordimento c’era anche una nota piacevole. In verità non ero nemmeno così sicuro che il mio cuore battesse per Maia. Mi piaceva, certo, ma forse mi ero affezionato soprattutto all’idea di avere una ragazza. Flavia sosteneva invece che i miei sentimenti fossero veri: mi mostrò i video dei miei appuntamenti con Maia, e mi spiegò come il linguaggio del corpo rivelasse la mia attrazione per lei. E poi, in fondo, non ero stato io a chiederle una relazione stabile?
Le telecamere di Cantora ci avevano seguiti per tutto il tempo nei nostri incontri pubblici. Maia lo sapeva, era d’accordo. Esasperata dagli attacchi che subiva su internet, aveva accettato di partecipare all’esperimento sociale definitivo. L’avevano contattata subito dopo il nostro match su Tinder. L’obiettivo era semplice: se mi fossi dimostrato capace di superare i pregiudizi e innamorarmi della mia nemesi, avrei ristabilito ancora una volta la fiducia dell’umanità in se stessa. Maia, dal canto suo, avrebbe suscitato l’empatia di tutti. Dato che io ero in grado di sorvolare sui suoi peccati, gli altri non potevano comportarsi diversamente. Ero il loro modello, il loro eroe.
Flavia mi spiegò il piano di pubblicazione dei video che ricostruivano la nostra storia attraverso gli appuntamenti. Se avessi firmato la liberatoria e un contratto di Influencer Marketing, mi avrebbero fornito i copy con cui condividere ogni filmato, insieme a una strategia per i post da pubblicare. Avrei potuto guadagnare con i social, diventare una vera celebrità della rete. Io e Maia avremmo solo dovuto continuare a frequentarci per un po’, o quantomeno fingere con qualche post sui nostri profili. Non potevamo far sapere che Maia non desiderava una relazione con me, altrimenti le avrebbero affibbiato ancora il ruolo di cattiva. «Sarebbe stato bello se fosse nata una storia vera» disse Flavia con il suo miglior sorriso consolatorio. «Ma non si può avere tutto, no?»
Deglutii, mentre un consulente legale ci raggiunse con il contratto e la liberatoria. Pensai a Maia, al suo corpo caldo nel mio letto e alle sue mani che non stavano mai ferme. Era sempre la solita storia, ma stavolta con un maggior numero di spettatori.
Presi la penna e firmai.

CONTINUA A PAGINA 7

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here