Mani da origami

0
1138

A tavola notai che Maia affondava spesso le mani nei folti capelli castani, e li spingeva indietro per evitare che le finissero sugli occhi. Quel gesto mi stregò, come mi accadeva molte volte di fronte ai tic altrui. Abituato a relazioni brevi, non ero mai stato con una donna abbastanza a lungo da odiare i suoi gesti ricorrenti. Pensai che sarebbe stato bello arrivare a odiare un tic come quello, prima o poi.

Non stava mai ferma con le mani, né mentre parlava né mentre ascoltava. Appallottolava il tovagliolo, giocherellava con le bacchette, faceva scorrere il dito sul bordo del bicchiere senza produrre alcun suono. Mi disse che gli origami la aiutavano a sfogare quell’irrequietezza, insieme al bisogno di tenere le mani sempre occupate. Amava i lavori manuali, e scherzava sul fatto di non avere bisogno di un uomo per attaccare una mensola o costruire un mobile Ikea. «Meno male, perché io non ne sono capace» dissi, e subito me ne pentii. Non volevo fare la figura di quello che si mette subito a fantasticare su una relazione, anche se in realtà lo stavo già facendo. Maia però rise, e l’arrivo della nostra barca di sushi ci fece cambiare argomento.
Fu durante il pasto che mi accorsi degli sguardi furtivi da un tavolo vicino. Non erano rivolti a me, e questo mi stupì. Erano rivolti a Maia. Lei stessa se n’era accorta, e lanciava occhiate fulminee alla giovane coppia che la scrutava. Mi tornò in mente il senso di familiarità che avevo avvertito all’inizio. Quando si accorse che guardavo alternativamente sia lei sia la coppia, abbassò gli occhi e fece una risatina imbarazzata: «Scusa» disse, «ma pensavo che lo avresti scoperto prima…»
Mi prese completamente alla sprovvista. «Scoperto cosa?»
Spiegò tutto in poche parole, come se quel “segreto” fosse un cerotto da strappare via in un colpo solo. Anche lei era stata vittima degli esperimenti sociali di Cantora, poco tempo dopo di me. Le era capitato quello della bambina che elemosinava cibo: girava fra i tavolini di un bar all’aperto e chiedeva ai clienti di lasciarle qualche avanzo. Maia stava proprio addentando l’ultimo boccone del suo panino, aveva fretta ed era rimasta senza niente da darle. Io avevo firmato una liberatoria per consentire che la mia faccia apparisse in video, ma lei invece si era rifiutata, quindi le avevano offuscato il volto in post-produzione. Non era bastato: un suo ex l’aveva riconosciuta per gli abiti e la corporatura, e in poco tempo la sua identità era diventata pubblica, proprio mentre il filmato diventava virale e internet la subissava di insulti. “Potevi almeno offrirle qualcosa, stronza” scrivevano su Twitter. Qualche meme su di lei circolava in rete, con la sua foto presa da Facebook. Ecco perché mi era sembrata familiare.
«Puoi fargli causa» dissi quando terminò il racconto. «Dovresti.»
Lei alzò le spalle, borbottò che voleva solo dimenticare tutto. Pensava che anche internet presto avrebbe dimenticato, come faceva sempre. Mi parve strano che fosse così arrendevole, ma decisi di non insistere per non indispettirla. Lei ci scherzò un po’ su, disse che eravamo l’uno la nemesi dell’altra, e si mise a fare commenti golosi mentre scorreva il dito sulla carta dei dolci.
Quella rivelazione mi aveva turbato. Adesso ero io a gettare occhiate alla coppia del tavolo vicino, che ormai si stava dedicando alle proprie ciotole di ramen senza badare a noi. Cercavo di ridere, ma lo trovavo forzato, innaturale. Forse Maia se ne accorse, perché quando il cameriere portò il conto – che lei accettò di lasciarmi pagare solo dopo molte insistenze – prese lo scontrino, lo piegò a metà e strappò lungo il solco, riducendolo a un quadrato. Osservai le sue dita lavorare sul pezzo di carta con movimenti sicuri, quasi automatici, fino a trasformarlo in un piccolo uccello che si reggeva sulla coda e sulle ali. Me lo porse, tenendolo per il becco fra il pollice e l’indice.
«Ecco» disse. «Non ci pensare.»
Davanti al suo portone non tentai di baciarla, anche se mi sarebbe piaciuto. In quel momento mi sembrava affrettato, con la sua storia che mi pesava ancora sul petto. Mi limitai ad accarezzarle una guancia, chiedendole se ci saremmo visti ancora. Lei disse di sì. Fece anche una piccola smorfia divertita, come se avesse risposto alla domanda ingenua di un bambino.

CONTINUA A PAGINA 6

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here